MARCO INTROVINI

EN PLEIN AIR

En plein air.

Eccolo: si sente già en plein air. È già en plein air. Ma si sente due volte en plein air: uno perché è appunto en plein air, all’aria aperta. E due perché è riuscito a scovare, appena sopra Cantù, un prato che assomiglia in modo sorprendente a quello dei Papaveri di Monet. Più Più plein air di così! Certo i papaveri non ci sono. È troppo presto. Ma quella ondulazione erbosa, il leggero avvallamento, gli alberi sullo sfondo. Qui niente persone, ma meglio così: non sono quelle che lo interessano. È la luce. Vuole catturare sulla tela la luce di questa luminosa giornata di marzo. Emilio Castellani inizia oggi il suo nuovo corso artistico. Ha raggiunto una modesta notorietà – oh, niente di esagerato: lo conoscono più che altro nell’ambiente milanese degli artisti, dei collezionisti, nel corso degli anni qualche personale, soprattutto in provincia, qualche collettiva, qualche quadro venduto alle mostre, negli ultimi anni altri alle aste online – ma questa modesta notorietà, la deve al suo vecchio metodo – gli vien da definirlo antico, anche se era quello con cui dipingeva fino a pochi mesi fa. Andava in giro con una vecchia Nikon dove la città smette di essere città senza però essere ancora niente di diverso, scattava foto alle case in lontananza, i palazzi snodati come serpentoni orizzontali, in fondo a prati e campi suburbani, cavalcavia, svincoli come enormi virgole, poi tornava in studio (che poi era uno stanzone di casa sua) e trasformava le stampe fotografiche in bianco e nero in paesaggi colorati (si fa per dire) sulla tela: ne venivano fuori immagini quasi astratte, dai toni prevalentemente cupi, geometrie irregolari piene di languida tristezza, se non – come aveva scritto un critico in vena di espressionismi – di “immedicabile disperazione”. Niente plein air. En plein air erano solo gli scatti fotografici, ma la creazione vera e propria scaturiva dalla sua fantasia nel chiuso dello studio. Luci e colori erano suoiPoi era arrivata la crisi: gli sembrava di ripetersi, una volta trovata una cifra sua gli era facile replicarla, senza uno stimolo vero, quasi impigriva. Oh, non che mancassero esempi di questa “serialità opportunistica”, come la chiamava lui, anche fra i pittori importanti, quelli che poi finiscono sui manuali di storia dell’arte. Repetita iuvant portafoliis pensava maccheronicamente. Ma lui, che nei manuali di storia dell’arte non ci sarebbe mai entrato (salvo che), non voleva adagiarsi sul divano del rifare se stesso. Anche perché il suo portafogli non si sarebbe impinguato più di tanto, non avendo un gran nome sul mercato. Era rimasto qualche mese senza dipingere. Sentiva il bisogno di aria nuova, in generale nella sua vita, in particolare di una boccata d’aria fuori dal chiuso dello studio. Si era riempito gli occhi della luce e i colori di Monet alla mostra di Palazzo Reale: una boccata di plein air. Allora nel chiuso dell’esposizione. Ma adesso, in questo cantuccio di Brianza travestito da Île-de-France è un en plein di plein air. Adesso deve solo scegliere il punto esatto dove mettersi col cavalletto: il piccolo dosso appena lì sopra? No, meglio proprio l’avvallamento al centro dove Monet ha piazzato Madame col suo bambino: ce l’ha stampato in mente come se l’avesse davanti agli occhi –, è lì che la luce sembra concentrarsi, come assorbita dalla leggera depressione del terreno.

Ha già deciso il titolo del quadro: 23 marzo 2022: condizioni di luce.

La tela l’ha già preparata con una stesura omogenea di bianco. È un invito alla luce. Una gentilezza. Cortesie per gli ospiti. Prego, luce, accomodati sulla tela. Fai come se fossi a casa tua. Sei a casa tua. Perché la tua casa è ovunque, quindi anche sulla mia tela. Ma qui ti preparo un’accoglienza speciale: questo bianco che ho steso è il red carpet (eh eh) sul quale sfilerai entrando nella mia tela, trionfante, acclamata. Sii te stessa, luce, sii sulla tela – sulla mia tela - come sei in cielo e in terra in questa giornata di prima primavera. Concedimiti in tutta la tua luminosità appena velata di oggi. Perché oggi, en plein air, ti voglio catturare, amorevolmente catturare, sulla mia tela, come un ragno la preda – no, dai, che immagine invischiosa: libera ti voglio sulla tela. Libera di essere come sei.  È di te, che mi interessa, della tua semprità. Orazio da un mese dipinge solo variazioni in giallo e blu alla Rothko. A me interessa la semprità. Che poi è anche attualità, perché se è sempre è anche adesso.

Ora, sul bianco, un abbozzo del paesaggio, solo pochi elementi riconoscibili, come nel Turner più tendente all’astratto. Poche pennellate rapide, destinate ad affogare nei successivi strati di luce, non proprio affogare, rimanere appena visibili come teste di naufraghi affioranti dal mare in tempesta. Ecco, l’ondulazione del terreno, che si intuisca, gli alberi sullo sfondo, macchie di verde scuro, la casa fra gli alberi lontana lontana… non sa se accennarla… appena un quadratino con qualche macchietta, il cielo, per ora solo una quinta. Poi arriverà la luce con la sua palpitante intensità a disintegrare le forme. Fusione della luce e del colore nella forma. O meglio nell’in-forma. Della forma – delle forme - resterà un ricordo. Come un ricordo d’infanzia di cui non si è ben sicuri.

Per stendere la luce, ha bisogno di colori più diluiti, che si sovrappongano al paesaggio, lo confondano, lo illuminino, lo annichiliscano – no lo fondano in un’epifania di luce. La luce - ecco, queste condizioni di luce del 23 marzo 2022, che non si ripeteranno mai più identiche e che oggi vuole catturare sulla sua tela - com’è questa luce? Non come un semplice riflesso sugli oggetti, ma come entità atmosferica completamente autonoma. La vede, la sente, ora deve trovarla, reinventarla con la mescolanza dei colori, ma in assoluta fedeltà. … Intanto non è già più quella di quando ha iniziato a dipingere. È meno – come dire – virginale. Appena appena, sfumature eh, ma qui tutto si gioca sulle sfumature. Comunque non è un problema, perché solo ora ha inizio il vero match – ma no, non è una lotta, è un duetto, un pas de deux – con la luce. Finora, ecco sì finora la luce era solo – si fa per dire! – qualità cromatica dell’erba degli alberi del cielo. Ora diventa protagonista assoluta. È luce disincarnata. E allora immergiamoci in questa luce, lasciamo che mi imbeva. Abbandono mistico: socchiude anche gli occhi per penetrarne ogni segreto. Azzurro.  Una mano di blu oltremare con bianco di zinco molto diluita, leggera. Sul cielo sulle nuvole sull’erba, sugli alberi no, anzi sì, tocchetti in punta di setole. Poi sovrappone giallo di cadmio schiarito fino a renderlo irriconoscibile. Un velo appena, come un fumo quasi impercettibile: rende la perdita della virginalità.

Ora con il velo giallo sull’azzurro ha raggiunto la tonalità giusta per dare alla luce sulla tela le condizioni del 23 marzo 2022. Arretra di un passo, osserva il dipinto, allarga lo sguardo. Mhn… no, non c’è corrispondenza piena. Non c’è ancora sulla tela la luce che imbeve l’atmosfera intorno a lui. Questa particolare qualità. Eppure… C’era, ed è cambiata la luce, di un niente, ma quel niente che è tutto? … o forse era comunque sbagliata la luce sulla tela…? Non è mai stata davvero giusta…? La luce naturale gli sembra un po’ più calda e al tempo stesso un po’ più fredda. Possibile? No, o forse sì. Al diavolo Aristotele. Quindi: giallo primario mescolato a rosso, o blu oltremare con bianco di zinco in proporzioni diverse? O prima l’uno e poi l’altro, o prima l’altro poi l’uno? Arretra ancora un passo, socchiude gli occhi: nel tremolio delle ciglia la partita si risolve ai rigori a vantaggio del giallo. Anche perché col passare delle ore la luce dovrebbe farsi sempre un po’ più calda. Alla faccia della semprità. Qui sempre non dura neanche un quarto d’ora.

Ha “vaporizzato” quel niente di giallo primario sporcato con un meno che niente di rosso. Ora sente il bisogno di staccare un po’ dalla tela così com’è. Lontano dagli occhi lontano dal cuore. E dalla mente. Beh, lontano per modo di dire: un giretto nel prato, dalla parte “fuori campo” quella che non entrerà nella composizione né dunque nella storia dell’arte (eh eh). E d’altronde non se lo merita: da quella parte il paesaggio smette il travestimento da Île-de-France e confessa la sua identità briantea. Oh, non che i dintorni di Cantù non meritino un eternatore nei loro aspetti più tipicamente cisalpini. Ma non sarà lui. Non oggi almeno. È incredibile come un’inquadratura crei un mondo strappandolo dal contesto. Come quando girano un film: la casa di Montalbano l’ha vista dal vero in Sicilia e non c’entra niente con quella della tivù. È il de-contesto che decide.

Lascia che i pensieri scivolino sulla superficie dell’attesa accompagnando il suo passeggiare indolente che asseconda i leggeri dislivelli del terreno. Si è allontanato fino a vedere dalla distanza la tela sul cavalletto spersa nel prato. Che plein air! Che Île-de-France! (Da qui sì). Gli verrebbe quasi da dipingere un altro quadro con il suo quadro dentro al paesaggio… Ah, il meta-!

Perfetta! La luce sulla tela è perfetta. Passa con lo sguardo dalla tela all’aria intorno, al cielo, di nuovo alla tela, di nuovo alle condizioni di luce del 23 marzo 2022 tutto intorno a lui.

Ora può ritoccare gli elementi del paesaggio, quasi ormai invisibili per farli emergere come ricordi appena un po’ più distinti. Concentratissimo. Riprende i colori con tocchetti rapidi dei pennelli, che cambia in continuazione per adattarli alle dimensioni dei particolari dipinti.

Ecco. L’effetto che cercava l’ha raggiunto. Può arretrare di nuovo di un passo per contemplare il risultato. E mentre contempla soddisf… un sospetto d’ombra raffredda impercettibilmente il dipinto, l’aria tutto intorno. Si volta di lato: una nuvola sfilacciata – i suoi lembi diafani – si frappone fra il mondo e il sole. Passerà. Passerà, ma dietro di lei muovono – lenti lenti – in direzione del sole altri straccetti vaporosi.

Azzurro allora ci vuole. Ma l’oltremare (ah, evocazione d’altrove!) adesso va mescolato con bianco di titanio per opacizzare quel poco che occorre. Inseguire le condizioni di luce di questo 23 marzo 2022. E azzurro tenue opaco sia. Sulla tela ormai c’è una mescolanza indefinita che non c’entra più niente con la luce intorno a lui. Ma è bella. Comunque bella. Rimane a guardarla con il pennello sospeso in mano. Poi, guidato da un raptus calmo, affoga nel colore quel poco che si può ancora distinguere degli elementi del paesaggio.  Pochi minuti, gira la tela e scrive col carboncino, sul retro, Senza titolo.